Francesco d’Assisi e il francescanesimo 

La figura e l’azione di Francesco d’Assisi, si inserisce su una linea pauperistica già ampiamente tracciata da altri movimenti radicali operanti nel XIII secolo, come i valdesi e i catari. La grande differenza tra il pensiero di questi ultimi e quello di Francesco e che lui rimane all’interno della Chiesa, affermando che la validità del messaggio evangelico rimane intatto anche qualora i vettori di esso, i preti, per la loro condotta non siano degni di divulgarlo.

Si è già affermato che, grazie alla scelta di “sine glossa”, del “volgare”, è impossibile ritrovare dei modelli architettonici o artistici francescani da esportare in tutta Italia, o in tutta Europa. Ciò che caratterizza l’Ordine è, infatti, una sorta di atteggiamento camaleontico, la capacità, ovvero, di volgarizzare, semplificare ed evidenziare le scelte dell’Ordine, attraverso interventi mirati sulla tradizione artistica e architettonica locale. La conseguenza è che le scelte minoritiche sono sempre legate ai luoghi di insediamento degli stessi e, pertanto, è possibile affermare che non esista un’architettura e un’arte francescana ma, piuttosto, un’architettura e un’arte dei francescani. Date queste premesse, è impossibile identificare una sorta di prototipo per le chiese francescane (come, invece, era apparso palese nell’ordine Cistercense), mentre appare logico estrapolare dal contesto architettonico minoritico proprio la più importante realizzazione legata a Francesco: la Basilica di Assisi. 

 

La Basilica di Assisi


La Basilica, conclusa da papa Innocenzo IV nel 1253, è una vera e propria architettura romana, voluta dal papa per celebrare Francesco, morto nel 1226 e canonizzato immediatamente (nel 1228). La struttura è formalmente distante dalle “basiliche romane”, essendo costruita “modo francigeno”, ovvero con una sola navata coperta da una serie di volte a crociera a sesto acuto, concludentesi in un transetto con absidi poligonali, illuminata da grandi finestre a lancetta, con vetrate istoriate. Allo stesso tempo, però, l’attenzione verso la decorazione, la scelta degli artisti (Cimabue, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Pietro Cavallini, Arnolfo di Cambio e i maestri oltremontani), immediatamente la pone come frutto di una scelta estranea ad una cultura pauperistica e ripetente modi propri della chiesa romana

 

Giotto

Tra gli artisti impegnati nella decorazione della struttura, è presente anche quello che di lì a poco realizzerà una vera e propria rivoluzione nell’arte occidentale, quello che, come dice Vasari, muterà la pittura “greca” in “latina”: Giotto.

Giotto è certamente il più grande artista del periodo compreso tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. È il pittore che, per la prima volta, prende le distanze dalla stantìa e obsoleta cultura iconografica di origine bizantina e, comprendendo pienamente la svolta in senso umanistico degli artisti, degli architetti e dell’intera società del XII e XIII secolo, comincia a rivolgersi alla realtà, alla società, alla verità naturale e storica. L’allontanamento dalle soluzioni iconografiche di origine orientale, è evidente fin dalle prime opere giottesche, e certamente l’importanza riservata all’essere umano, come artefice della propria fortuna e della propria santità, è fondamentale nella redazione delle Storie di San Francesco che Giotto realizza ad Assisi. 

Nell’analisi delle opere giottesche nella Basilica assisiate, ciò che immediatamente emerge è l’attenzione verso la storia; una storia che si svolge in uno spazio e in un tempo preciso, che, necessariamente, prevede l’attenzione verso dati naturali e ambientali che, non solo fanno da cornice all’azione scenica ma entrano a far parte di essa, dando valore ad essa. In nome della “verità” e della “realtà”, che si sintetizza nell’evidenza di una situazione storica, Giotto sacrifica tutto l’apparato simbolico e decorativo eccessivo. 

Giotto, quindi, si rivolge alla realtà non si rivolge alla simbologia, non è interessato agli abbellimenti che possono distrarre dall’azione; evita la bidimensionalità per inserire i personaggi all’interno di un sistema spaziale fatto da relazioni naturali, da dimensioni comprensibili dall’essere umano, un sistema basato su regole geometriche elementari e su attenzione verso i dati naturali.

 

Le Storie di San Francesco

Giotto, dunque, molto probabilmente, è presente ancora molto giovane ad Assisi, dove realizza le Storie di San Francesco, in una serie di pannelli quadrati sistemati nel registro inferiore della navata. Già il termine “storia” deve indurre a notare delle grandi novità nell’opera giottesca; non si tratta più di tavole agiografiche (molto in voga nel XIII secolo), dove, accanto alla figura principale, centrale si posizionavano dei piccoli pannelli con scene legate alla vita del personaggio rappresentato. Nel caso di Assisi, l’opera di Giotto segue in maniera pedissequa e secondo un ordine cronologico serrato, ciò che Tomaso da Celano aveva raccontato, solo qualche decennio prima, nelle sue due redazioni della “Vita” di Francesco. Fondamentalmente Giotto illustra, tramite i suoi affreschi, il testo scritto di Tomaso da Celano, rende comprensibile agli analfabeti, ciò che Tomaso ha scritto riguardo a Francesco, ovvero un racconto evidenziante come, attraverso le opere, l’uomo Francesco diventa Santo. 

Partendo dall’episodio rappresentante il “Dono del mantello”, seguendo poi con la “Predica agli uccelli” e sviluppandosi lungo tutta la vita raccontata da Tomaso, ecco che Giotto interviene con la pittura a rendere evidente e comprensibile il valore di Francesco come uomo, il suo ruolo nella società e nella storia. 

 

Il “Dono del mantello”.

L’episodio, raccontato anche da Dante nella Divina Commedia, viene rappresentato da Giotto seguendo in maniera pedissequa, tutte le indicazioni rintracciabili nei testi letterari. Il pannello quadrato mostra, infatti, il momento in cui Francesco, tornando da Perugia e dirigendosi verso Assisi, nella valle del Tupino, incontra un giovane viandante al quale dona il proprio mantello. 

La scena che l’artista propone è di una chiarezza devastante, seguendo la divisione del pannello secondo due diagonali, Giotto identifica a sinistra la collina sulla quale si trova Perugia e a destra quella con Assisi. Proprio all’incontro tra le diagonali si pone la testa di Francesco, che diventa anche asse di simmetria contribuendo a dare un maggior equilibrio all’intera scena. 

L’aderenza al racconto di Tomaso da Celano è totale, l’affresco, infatti, illustra la scena in cui il giovane Francesco, si ferma durante il viaggio da Perugia ad Assisi, scende da cavallo e dona il mantello a un viandante. 

“Un giorno incontrò un cavaliere povero e quasi nudo: mosso a compassione, gli cedette generosamente, per amor di Cristo, le proprie vesti ben curate, che indossava” (Tomaso da Celano, Vita secunda, cap. II, vers.585)

A una lettura approfondita del pannello, appare evidente che non è la bellezza esteriore che interessa all’artista ma la storia, la verità, la perfetta collocazione della scena in un ambiente, e in una situazione spazio-temporale. Innanzitutto, è possibile riconoscere un primo piano, dove sono posizionati i personaggi principali (Francesco, il cavallo e il viandante). 

quindi un suggerimento di profondità, con la valle tra le due colline che ospitano anche alberi e, infine, un’espansione ariosa e leggera, data dal cielo azzurrissimo che occupa circa i ¾ dell’intero affresco.  A differenza di ciò che si nota nelle opere di piena età longobarda o carolingia, ma anche in una gran parte delle sculture e pitture romaniche, questo azzurro che si insinua tra le due colline di Perugia e di Assisi non è un vuoto, ma è un vero e proprio spazio; è aria che fa sì che i personaggi in primo piano possano respirare, possano avere un loro ruolo nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, è proprio questo azzurro che segna la distanza spaziale tra Assisi e Perugia, che si insinua tra gli alberelli posti sulle colline e che permette di individuare un vero luogo ove avviene la scena, uno spazio cubico nel quale i personaggi vivono e all’interno del quale si svolge una vera e propria storia. I piani dello spazio cubico sono facilmente individuabili: il limite tra lo spazio dell’affresco e quello del pubblico è dato dal cavallo, da Francesco e dal viandante, quindi, seguendo le colline si individua una profondità che si conclude con un piano intermedio formato dalle due città e, quindi, il cielo azzurro.

La scelta di rappresentare la realtà e la veridicità storica dei personaggi, non lascia spazio alla decorazione e all’abbellimento della scena. Nonostante Francesco, fosse figlio di Pietro Bernardone, uomo molto ricco e commerciante di tessuti, l’abito che indossa non mostra alcuna decorazione, alcun segno di leziosità ma, così come quello del viandante, scende pesantemente quasi come fosse una massa cilindrica, solcato da pieghe diritte e semplificate. Sulla stessa linea di pensiero si pone l’indifferenza verso la necessità di mostrare una piacevolezza fisica nei corpi dei personaggi: alla scelta di rappresentare personaggi armoniosi ed eleganti, si contrappone quella di evidenziare la gestualità. Ciò che in questo pannello appare necessario sottolineare è la forza della scelta di Francesco; il gesto di togliersi il mantello e di darlo al povero. Null’altro è degno di nota, Giotto illustra pedissequamente una storia scritta, ha la forte intenzione di mostrare a chi non è in grado di leggere e scrivere, la personalità di Francesco, di indugiare sull’uomo Francesco e non sul “santo”, su una persona che si conquista un ruolo nel mondo terreno e non, attraverso i suoi gesti. Giotto è il massimo interprete delle azioni di Francesco d’Assisi, il primo a capirne la modernità e la forza devastante; una modernità che modifica anche il modo stesso di fare pittura, che introduce nell’arte la necessità della verità. 

Francesco è un “joculator Christi”, un giullare. Le azioni di Francesco sono eclatanti e sono dissacranti; mettono alla berlina il perbenismo borghese duecentesco, evidenziano la superficialità della dimostrazione della ricchezza e dello stato sociale. 

 

La rinuncia ai beni

Il pannello con “La rinuncia ai beni” è fondamentale in tal senso. 

Tomaso da Celano racconta e indugia su questa scena dissacrante e quasi comica di Francesco che, nel mezzo della piazza di Assisi, si denuda completamente, dichiarando di rinunciare ai beni terreni, di non riconoscere più in Pietro di Bernardone il proprio padre e di affidarsi completamente a Dio e alla Chiesa. L’azione di Francesco è certamente scandalosa e, da Giotto, viene descritta in maniera meticolosa e carica di significati simbolici. Il pannello appare diviso in due parti: a sinistra, in primo piano, un gruppo di personaggi, riconoscibili come folla laica, posizionati di fronte a un palazzo nobiliare, mentre a destra, un gruppo di chierici, si trova davanti a un’architettura più semplice, sormontata da una sorta di tempietto. Tra i personaggi di destra è facilmente riconoscibile Francesco, nudo e coperto solo dal mantello di una persona alle sue spalle, identificabile con il vescovo di Assisi. Il gruppo di sinistra, invece, che non nasconde una certa curiosità per la scena che si sta svolgendo davanti ai propri occhi, è vicino a un uomo vestito con una tunica giallastra, che tiene sul braccio sinistro dei vestiti e sta per sferrare un pugno al giovane nudo, di fronte a lui. La simultaneità di questi eventi è incredibilmente mostrata da Giotto. La scena si sta svolgendo davanti agli occhi degli spettatori, in un hic et nunc magistrale. Mentre Francesco si denuda, infatti, il vescovo di Assisi lo copre, nello stesso tempo qualcuno ferma la mano del padre pronta a colpire, avendo appena raccolto da terra i vestiti del figlio. Anche in questo caso non c’è nessuna attenzione verso l’idealizzazione dei personaggi, si è davanti a una galleria di ritratti di gente assisiate, tutti identificabili e tutti protagonisti di una scena che si svolge in un luogo preciso e in un momento preciso. 

Ciò che salta all’occhio, però, è anche l‘assoluta estraneità di Francesco alla scena tumultuosa che lui stesso ha provocato. Non curandosi del vociare, il giovane alza gli occhi e allunga le mani giunte verso l’alto, attraversando lo spazio centrale del dipinto, solo apparentemente vuoto, e dialogando con la mano di Dio che appare nella parte più alta del pannello. Come nel pannello del Dono del mantello, anche qui i corpi sono volumetricamente definiti, l’anatomia di Francesco è resa in maniera perfetta e tridimensionale e, come avviene per tutti gli altri personaggi rappresentati, occupa uno spazio.

 

Il presepe di Greccio

Indugiando sul discorso relativo allo spazio, di importanza eccezionale è l’affresco illustrante la scena del “Presepe di Greggio”. Qui Giotto si sofferma sull’azione di deporre il Bambino Gesù in una sorta di mangiatoia presso il ciborio e l’altare di una chiesa.
La scena si volge nella parte più sacra dell’edificio ecclesiastico, separata dalla navata da un’iconostasi e fruita solo dai prelati. Nell’opera, Giotto non solo evidenzia perfettamente lo spazio dove si svolge l’azione di Francesco ma suggerisce anche la presenza di uno spazio al di là della porta. La chiesa, che continua oltre la parete dell’iconostasi, è immediatamente intuibile sia dalla presenza di un gruppo di donne che si ammassano presso la porta sia, e ciò appare ancora più interessante e moderno, dal Crocifisso che, visto dalla parte posteriore, pende verso la navata, e dal pulpito, che si affaccia verso di essa. 


Giotto: l’umanità, lo spazio e il tempo 

Giotto, attraverso questo continuo rivolgersi allo spazio vissuto, al tempo passato in uno spazio al fine di compiere azioni umane, evidenzia in maniera eccezionale l’importanza dell’umanità di Francesco e, tramite lui, si concentra in maniera definitiva sul ruolo centrale e fondamentale dell’essere umano nel mondo. 

Questo è un cambiamento epocale. Pur affondando le radici nel mondo romanico, è con Giotto che l’essere umano assurge ad una dignità tale da poter essere messo sullo stesso piano di Dio. Questo è il vero senso dell’aver mutato l’arte da greca a latina; Giotto si distacca dall’iconografia di origine greco-bizantina che spadroneggiava nel Mediterraneo, fin dal V secolo, che da sempre poneva l’uomo su un piano inferiore rispetto a Dio, sottovalutando così quelle coordinate spazio-temporali così classiche, così pregne di modernità che avevano caratterizzato il mondo classico greco-romano. Giotto con l’esaltazione dell’umanità, e di quell’umanità che in Francesco d’Assisi trova il massimo esponente, supera definitivamente l’idea di una società totalmente incosciente della propria autodeterminazione, pone al centro dell’attenzione la coscienza dell’uomo, l’azione dell’uomo, la libertà dell’uomo, la verità e la storia. 

 

La Madonna di Ognissanti

Questa umanità, questa solenne e magnifica modernità appare e sconvolge nella Pala della Madonna di Ognissanti, conservata al Museo degli Uffizi di Firenze.

La pala d’altare segna un punto di non ritorno nella tradizione iconografia medievale. Essa, pur mantenendo intatto il ruolo di immagine sacra, atta a facilitare il contatto tra l’uomo e Dio, attraverso l’utilizzo del fondo oro e l’esaltazione della Vergine come Madre di Dio, l’opera di Giotto è una rivoluzione senza pari.

La forma cuspidata della tavola rimanda a un linguaggio certamente gotico, così come il fondo oro e la centralità assiale della Madonna col Bambino ma, pur mantenendo il significato simbolico di immagine divina, il fondo oro nell’opera giottesca è ben lungi dall’essere astratto e bidimensionale. Il trono che accoglie la Vergine, certamente gotico, certamente troppo sottile ed elegante per essere completamente “vero”, si staglia sul fondo occupando uno spazio e creando, a sua volta, spazio. Gli angeli e i santi che stanno a destra e sinistra della Madonna col Bambino, in realtà circondano il trono, negando la bidimensionalità all’oro. Le imprecisioni che si notano nella tavola (il trono troppo leggero, la prospettiva sbagliata del basamento), sono certamente da intendere come dei “tributi” pagati da Giotto alla tradizione devozionale ma, ben al di là di questa accettazione passiva di una tradizione stantìa, è il modo come il pittore realizza la Vergine. Andando contro qualsiasi regola non scritta, ma certamente legata ad una bellezza esteriore o, addirittura ripetente i soliti schemi iconografici di origine bizantina, la Madonna di Giotto percorre tutt’altre strade. Nessuna concessione verso l’eleganza, verso la ieraticità, verso la bellezza ideale, la Madonna seduta al centro della pala è una donna del popolo, trovata tra la gente comune e posta sull’altare, quasi a evidenziare la dignità di ogni essere umano… nulla di diverso dal valore dell’essere un semplice “uomo” in Francesco. Ma la Vergine di Ognissanti è certamente una donna vera, è una donna che ha una sua corporeità, un suo volume e una sua intenzionalità; allo stesso modo il Bambino, una specie di piccolo uomo che pesa sulle gambe della madre, provoca una serie di pieghe più o meno profonde nella veste, altrimenti perfetta. 

 

Il Crocifisso di Santa Maria Novella

Il Crocifisso di Santa Maria Novella è un’opera fondamentale, meravigliosa. Chiaramente l’iconografia proposta da Giotto è quella del Cristo Paziente, ovvero di un uomo che muore sulla croce, e si inserisce nella linea promossa da Giunta Pisano. Ma, a differenza dei crocifissi di Giunta Pisano, il Crocifisso giottesco mostra una conoscenza dell’anatomia, della situazione e della realtà ben più alta e consapevole del maestro duecentesco. I crocifissi di Giunta Pisano mostrano un Cristo con le mani e i piedi inchiodati, che reggono un corpo che si inarca creando una sorta di parentesi tonda, un’eccezionale forma in tensione, sottolineante il peso del corpo che cade, bloccato solo dalla forza dei chiodi. Per poter accogliere il corpo del Cristo, Giunta Pisano inserisce due pannelli a destra e a sinistra del palo della croce, che verranno poi utilizzati per inserire la figura della Vergine e di San Giovanni Evangelista (una Deesis occidentale), ricostruendo la scena storica narrata dal Vangelo di Giovanni. Nonostante queste accortezze, il Cristo di Giunta Pisano è ancora strettamente legato alla bidimensionalità propria di un’iconografia medievale, bizantina; i pettorali, gli addominali, la muscolatura delle braccia e delle gambe, sono sintetizzati in forma lineare, ritagliando, quasi la figura di Cristo, sulla forma della croce. 

Con Giotto la situazione cambia totalmente. Il Cristo di Giotto certamente muore sulla croce, ma l’attenzione verso la realtà del maestro, vede una presa di distanza chiara ed evidente dai prototipi di Giunta Pisano, in vista di una pittura di un realismo sconvolgente e terribile. Cristo è colto mentre sta esalando l’ultimo respiro, mentre sta cercando di respirare appoggiandosi ad un predellino posto lungo il palo della croce, atto solo ad “aiutare” il condannato a non soffocare mentre le mani sono inchiodate e lo bloccano in ogni suo movimento vitale. Il predellino, pur apparendo come una sorta di “pietoso aiuto” per il condannato, di fatto, allunga il tempo del dolore, ne aumenta la tragicità. 

Questa terribile realtà viene evidenziata da Giotto mostrando Cristo quasi seduto, con un fisico statuario e tridimensionale, forte di una conoscenza anatomica eccezionale, distante anni luce dalla bidimensionalità linearistica di Giunta Pisano. Il Cristo di Giotto è vero, non è una sigla iconografica, non ha nulla a che fare con i crocifissi simbolici di discendenza greco-romana-bizantina. L’uomo divinizzato lascia lo spazio a Dio che si fa uomo, preludio alla meravigliosa redazione della Trinità di Masaccio, forse non casualmente, affrescata un secolo più tardi nello stesso luogo.

 

Cappella degli Scrovegni

All’inizio del 1300, esattamente nel 1302, a Giotto viene commissionata la realizzazione delle decorazioni della Cappella degli Scrovegni a Padova. Il vano gigantesco viene affrescato da Giotto con un complesso ciclo pittorico incentrato sulla Storia della salvezza, che comprende le Storie di Gioacchino e Anna, le Storie della Vergine e le Storie di Cristo. Il Giotto di Padova è certamente un artista più maturo di quello di Assisi, le figure sono ancora più caratterizzate, la consapevolezza di un’anatomia e di una tridimensionalità è chiara, la riduzione all’osso del paesaggio rende più solenne l’intera rappresentazione. Il complesso ciclo pittorico mostra, comunque, un’omogeneità di fondo che evidenzia come l’artista si concentri, essenzialmente, sull’azione, sugli effetti dell’azione, sugli stati d’animo e su tutto quello che caratterizza l’umanità. La scelta di ridurre il paesaggio o lo sfondo, per lasciare largo spazio al fondo spesso azzurro, indica la volontà di realizzare ambienti vitali dove l’uomo riesce a vivere e ad agire, dove i sentimenti si espandono e prendono forma nelle espressioni e nelle gestualità. 

Tra le scene più importanti e più moderne dell’intero ciclo pittorico, è il “Compianto su Cristo morto”, capolavoro assoluto dell’arte mondiale e che verrà concettualmente replicato innumerevoli volte nel corso dei secoli. Il pannello si concentra sulla scena della deposizione di Cristo, adagiato sul terreno, abbracciato dalla Madre e attorniato da una folla di astanti, sullo sfondo si nota una collina arida che si sviluppa in senso diagonale, salendo da sinistra a destra, mentre il cielo azzurrissimo è occupato da angeli. 

Il Signore è stato appena deposto, mostra un irrigidimento delle membra che denuncia la conoscenza di Giotto del “rigor mortis”, quasi facendo pensare a una pittura dal vero, e il suo viso viene abbracciato dalla madre, col volto stravolto dal dolore, con gli occhi ridotti a fessure, vicinissimo a quello di Cristo, quasi come se stesse per baciarlo. Andando oltre al dolore più intimo di ogni essere umano, Giotto sposta poi l’attenzione verso il dolore degli amici più vicini, quasi a voler analizzare tutti i gradi di esso. Attorno alla Vergine e al corpo morto di Cristo sono gli amici più intimi e le pie donne. Ognuno di essi mostra atteggiamenti tragici, che si risolvono nelle mani serrate contro il viso, nell’atto di baciare i piedi a Cristo (la Maddalena, identificata dai capelli biondi sciolti sulle spalle), fino all’azione tragica di Giovanni, il discepolo più amato da Gesù che si avvicina e allarga le braccia in segno di disperazione. Il dolore poi si allarga coinvolgendo gli altri astanti, fino a informare anche la natura che è spoglia e arida, ospitante solo un alberello secco. Ma il dolore non è solo terreno è un dolore cosmico, un dolore che coinvolge il Regno dei Cieli e, infatti, il cielo azzurro che occupa almeno metà dell’intero pannello è occupato da angeli che arrivano picchiata e si disperano, con gesti eclatanti e tragici. L’opera non è solo eccezionale per la fattura, lo stile, la composizione e la vitalità ma è un’opera “storica”, un’opera che si rifà completamente sia al racconto dei Vangeli sia all’interpretazione di essi da parte dei Padri della Chiesa. Al di là della descrizione, infatti, a Giotto interessa mostrare il senso della realtà mostrata; la morte di Cristo è alla base del mistero della salvezza, il dolore della natura, degli uomini, degli angeli non è inutile, infatti, l’alberello secco, che si trova all’apice della collina brulla, germoglia. 

 

La Bellezza e il Realismo - Il giottismo

Il realismo di Giotto va ben oltre il concetto di Bellezza. La bellezza, intesa, come decorazione, come esaltazione dai dati naturali non interessa più a Giotto. Il pittore è certamente attento alla natura e all’anatomia, ma in funzione della sottolineatura dell’identità di ogni singolo personaggio. La simbologia fine a sè stessa, superante i dati naturali, spesso sconfinante in decorativismo, non è al centro dell’attenzione di Giotto che, evidentemente, strettamente legato alla lezione radicale di Francesco d’Assisi, opta per immagini veloci, di immediata comprensione e di semplice interpretazione. Una storia dell’arte senza filtri, un’immagine chiara e che lascia poco spazio all’immaginazione e, nella sua semplicità, diventa di immediata lettura e coinvolgimento. 

L’abbandono dell’eccesso di simbologia bizantina, dell’idealizzazione greca che aveva la sua forza nella reiterazione di un modello, impossibile da cambiare, incapace di parlare ma fatto solo per essere venerato, porta Giotto su un piano di assoluta grandezza e modernità. Qui è l’uomo che parla, l’uomo che agisce, l’uomo che si salva essendo uomo. 

In Giotto non è solo ravvisabile una sorta di umanesimo in nuce; Giotto è l’incarnazione dell’umanesimo di Francesco, della rivoluzione sociale, ecclesiastica, politica, istituzionale che dipende dalle azioni teatrali di Francesco: nulla di più di quello che è e in quello che è è tutta la grandezza della scelta libera dell’essere umano.

La svolta di Giotto avrà conseguenze inimmaginabili nell’arte occidentale dal XIV secolo fino a tutto il XV. La corrente che da lui dipende, chiamata “giottismo”, è alla base dello sviluppo dell’umanesimo, della grande rivoluzione pittorica di Masaccio, scultorea di Donatello, architettonica di Brunelleschi. 

 

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