Simone Martini
L'eredità di Giotto
Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV è’ necessario individuare almeno due scuole pittoriche che intervengono nel rinnovamento artistico del centro Italia, una facente capo a Giotto e un’altra che muove i suoi passi dall’opera di Simone Martini. Se tale differenzazione è quella accreditata, è altresì vero che la lezione di Giotto non può rintracciarsi solo negli evidenti casi di “giottismo”, ma sarà evidente anche nelle opere di quegli artisti che sembrano essere più distanti da lui e, tra essi, lo stesso Simone Martini.
La gigantesca figura di Giotto, infatti, ha lasciato tracce indelebili non solo nel modo di rappresentare l’UOMO come essere agente nello spazio e nel tempo, quindi come colui che “fa la storia”, ma la nuova monumentalità tridimensionale che Giotto dà ai suoi personaggi segna una sorta di “punto di non ritorno” rispetto all’arte dei secoli compresi tra il VI e il XIII, tale da influenzare in maniera forte anche gli artisti ancora legati ad un linguaggio pittorico e artistico tardo gotico o bizantino. Questa tendenza alla monumentalizzazione dei personaggi, alla tridimensionalità, alla naturalezza non si impone solo nell’ambiente fiorentino ma, data anche la fama raggiunta da Giotto, che sarà presente in gran parte della Penisola italiana, si ritrova anche a Siena e nell’opera del massimo esponente della pittura senese del ‘300: Simone Martini.
Le prime opere: La Maestà di Palazzo Pubblico a Siena
Nato nel 1284 a Siena, Simone Martini fin dalle sue prime opere risente molto dell’arte di Duccio di Boninsegna, massimo artista senese del periodo. Dopo esordi sicuramente legati alla tradizione locale, di ascendenza gotica e bizantina, nel 1315 mostra chiari segni di una rielaborazione raffinata delle novità giottesche nel grandioso affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena. L’opera pur riprendendo l’iconografia della tavola omonima di Duccio di Boninsegna con la Madonna col Bambino al centro della composizione e un fitto gruppo di angeli e santi a destra e a sinistra di essa, allo stesso tempo, mostra i risultati di una nuova ricerca spaziale e anatomica sottolineanti la distanza del giovane pittore dalla tradizione bizantina, ancora molto presente nell’opera di Duccio. Qui, infatti, la Madonna, ripetendo un’iconografia tradizionalmente bizantina ripete il tipo della “Vergine Eleusa” (o “della tenerezza”), avvolta in un manto bidimensionale blu ma inserita in un trono decisamente gotico, con pinnacoli e accenni ad una mal compresa tridimensionalità. Ma i bizantinismi di Duccio non si fermano alla riproposizione dell’iconografia mariana, il fondo oro, la mancanza di uno spazio dentro il quale potessero muoversi le decine di personaggi posti a destra e sinistra del trono nonché la fissità di essi, rimandano senza mezzi termini alla tradizione orientale non immune, però, da francesismi accentuati, come l’andamento spezzato della cornice e l’attenzione verso l’eleganza degli abiti dei santi e della Vergine.
Ora, pur non distaccandosi dalla tradizione senese, Simone nella sua Maestà mette in seria crisi ciò che rimane del bizantinismo per rivolgersi, invece, in maniera più spudorata alla cultura cortese di origine francese, inserendo, però, una serie di novità dal sapore decisamente giottesco. Nonostante siano chiari i rimandi a Duccio, nella composizione generale dell’opera, con la Madonna in trono e i santi disposti a destra e a sinistra di esso, appare chiaro che nell’opera di Simone i protagonisti “agiscono” in uno spazio arioso, definito in altezza e in profondità dalla presenza di un alto baldacchino tridimensionale posto all’aria aperta. Alla suggestione di un’immagine realistica partecipa anche la accentuata tridimensionalità e monumentalità dei personaggi; la Vergine ha una posa naturalistica e il vestito, indicando le parti anatomiche, mostra profonde pieghe tra le ginocchia che sostengono il peso del Bambino seduto sulla gamba sinistra. Ma questi chiari rimandi alla lezione di Giotto vengono declinati da Simone Martini in un linguaggio che è tutto ancora completamente gotico. È gotico il trono su cui siede la Vergine, anch’essa mostrata come una Regina francese, vestita in maniera raffinatissima; sono gotici i personaggi che circondano il trono, le cui figure esili e allungate, spesso individuate da una sigla lineare leggermente curvata verso l’alto e che indiscutibilmente rimandano alle statue dei portali delle grandi cattedrali francesi.
San Ludovico di Tolosa
L’elemento gotico così presente in Simone Martini è spiegabile con la sua vicinanza alla corte angioina, i cui esponenti furono spesso suoi committenti. Esemplare in tal senso è la preziosissima tavola raffigurante San Ludovico di Tolosa, conservata al Museo di Capodimonte a Napoli. L’opera datata al 1317 è di poco successiva alla canonizzazione di Ludovico d'Angiò, fratello di Roberto, re di Napoli, frate francescano spirituale creato vescovo di Tolosa e nei confronti del quale fu intentata una complessa causa di canonizzazione che vide una serie di problemi tra la corte di Napoli e il papa Giovanni XXII. Ludovico che per la causa “spirituale” si era lasciato morire di stenti, viene raffigurato da Simone Martini secondo un criterio che può essere, in un certo senso, collegato alle tavole agiografiche del XIII secolo, anche se interpretata secondo criteri che, anche in questo caso dipendono dall’esperienza giottesca. La rappresentazione di San Ludovico dà una serie di indicazioni “storiche” del personaggio con la sottolineatura della sua scelta francescana, sottolineata dal saio che Ludovico indossa e del suo essere Vescovo di Tolosa, come si evince da una serie di attributi iconografici come la Mitria vescovile, il mantello e il Bastone. Accanto a questi dati storici, che in realtà rappresentano l’aspetto più moderno di Simone Martini e la sua vicinanza alla lezione giottesca, si nota in quest’opera la volontà dell’artista di riprendere, laddove c’è la necessità di dare alla tavola un carattere devozionale e di evidenziare la santità di Ludovico, dei canoni iconografici decisamente bizantini. Essi si concretizzano nella posa frontale del Santo, nel fondo oro e, principalmente nella dimensione gigantesca di esso, in contrasto con Roberto re di Napoli, committente dell’opera nonché fratello del santo, evidentemente di dimensioni ridotte e inginocchiato.
Annunciazione degli Uffizi
Dopo aver concluso, nel 1318, la serie di affreschi nella cappella di San Martino nella Basilica inferiore di Assisi, dove è palese la declinazione delle forme giottesche in un linguaggio cortese, con l’allungamento delle figure e la trasformazione di ogni singolo personaggio rappresentato come un esponente di una cultura cortese e raffinata, tra il 1324 e il 1333 Simone Martini si dedica alla produzione di Polittici per le maggiori chiese di Siena.
Certamente l’opera più importante, il capolavoro degli ultimi anni dell’artista è l’Annuciazione degli Uffizi, datata al 1333. L’opera, che vede due pannelli laterali nei quali sono rappresentati Sant’Ansano e Santa Margherita e la un grande tavola centrale con la meravigliosa scena dell’Annunciazione, è la più raffinata testimonianza dell’aderenza al Gotico cortese da parte di Simone Martini e, al contempo, una delle più belle opere di tutti i tempi. Tutta l’immagine è composta da una serie di linee sinuose che individuano non solo le allungatissime figure dei due santi laterali, ma organizzano tutto il gioco di sottili corrispondenze verbali e gestuali che si creano dall’incontro dell’Angelo con la Vergine.
All’interno di una cornice polistila, dorata e cesellata si svolge una delle scene fondamentali per il mondo cristiano: l’angelo Gabriele è appena planato davanti alla Vergine Maria intenta a pregare. Che Simone Martini colga il momento del primo incontro tra l’Angelo e la Vergine è palesato dalle ali ancora aperte e dal vestito svolazzante del primo e, in maniera particolare, dall’atto di timidezza della Vergine che, all’ascolto delle parole dell’Angelo: Ave Maria Gratia Plena (che escono dalla sua bocca, quasi come un fumetto ante litteram), si ritrae chiudendosi nel mantello blu. La Vergine di Simone Martini, sintetizzata in una sigla concava, quasi come se il suo ventre fosse pronto ad accogliere il frutto delle parole pronunciate dall’Angelo, realizza in maniera sublime l’incontro tra una immagina naturale, dove alla compostezza della santità si contrappone la timidezza e lo stupore dell’umanità, e l’immagine iconica e raffinata di una mistica contemporanea.
Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV è’ necessario individuare almeno due scuole pittoriche che intervengono nel rinnovamento artistico del centro Italia, una facente capo a Giotto e un’altra che muove i suoi passi dall’opera di Simone Martini. Se tale differenzazione è quella accreditata, è altresì vero che la lezione di Giotto non può rintracciarsi solo negli evidenti casi di “giottismo”, ma sarà evidente anche nelle opere di quegli artisti che sembrano essere più distanti da lui e, tra essi, lo stesso Simone Martini.
La gigantesca figura di Giotto, infatti, ha lasciato tracce indelebili non solo nel modo di rappresentare l’UOMO come essere agente nello spazio e nel tempo, quindi come colui che “fa la storia”, ma la nuova monumentalità tridimensionale che Giotto dà ai suoi personaggi segna una sorta di “punto di non ritorno” rispetto all’arte dei secoli compresi tra il VI e il XIII, tale da influenzare in maniera forte anche gli artisti ancora legati ad un linguaggio pittorico e artistico tardo gotico o bizantino. Questa tendenza alla monumentalizzazione dei personaggi, alla tridimensionalità, alla naturalezza non si impone solo nell’ambiente fiorentino ma, data anche la fama raggiunta da Giotto, che sarà presente in gran parte della Penisola italiana, si ritrova anche a Siena e nell’opera del massimo esponente della pittura senese del ‘300: Simone Martini.
Le prime opere: La Maestà di Palazzo Pubblico a Siena
Nato nel 1284 a Siena, Simone Martini fin dalle sue prime opere risente molto dell’arte di Duccio di Boninsegna, massimo artista senese del periodo. Dopo esordi sicuramente legati alla tradizione locale, di ascendenza gotica e bizantina, nel 1315 mostra chiari segni di una rielaborazione raffinata delle novità giottesche nel grandioso affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena. L’opera pur riprendendo l’iconografia della tavola omonima di Duccio di Boninsegna con la Madonna col Bambino al centro della composizione e un fitto gruppo di angeli e santi a destra e a sinistra di essa, allo stesso tempo, mostra i risultati di una nuova ricerca spaziale e anatomica sottolineanti la distanza del giovane pittore dalla tradizione bizantina, ancora molto presente nell’opera di Duccio. Qui, infatti, la Madonna, ripetendo un’iconografia tradizionalmente bizantina ripete il tipo della “Vergine Eleusa” (o “della tenerezza”), avvolta in un manto bidimensionale blu ma inserita in un trono decisamente gotico, con pinnacoli e accenni ad una mal compresa tridimensionalità. Ma i bizantinismi di Duccio non si fermano alla riproposizione dell’iconografia mariana, il fondo oro, la mancanza di uno spazio dentro il quale potessero muoversi le decine di personaggi posti a destra e sinistra del trono nonché la fissità di essi, rimandano senza mezzi termini alla tradizione orientale non immune, però, da francesismi accentuati, come l’andamento spezzato della cornice e l’attenzione verso l’eleganza degli abiti dei santi e della Vergine.
Ora, pur non distaccandosi dalla tradizione senese, Simone nella sua Maestà mette in seria crisi ciò che rimane del bizantinismo per rivolgersi, invece, in maniera più spudorata alla cultura cortese di origine francese, inserendo, però, una serie di novità dal sapore decisamente giottesco. Nonostante siano chiari i rimandi a Duccio, nella composizione generale dell’opera, con la Madonna in trono e i santi disposti a destra e a sinistra di esso, appare chiaro che nell’opera di Simone i protagonisti “agiscono” in uno spazio arioso, definito in altezza e in profondità dalla presenza di un alto baldacchino tridimensionale posto all’aria aperta. Alla suggestione di un’immagine realistica partecipa anche la accentuata tridimensionalità e monumentalità dei personaggi; la Vergine ha una posa naturalistica e il vestito, indicando le parti anatomiche, mostra profonde pieghe tra le ginocchia che sostengono il peso del Bambino seduto sulla gamba sinistra. Ma questi chiari rimandi alla lezione di Giotto vengono declinati da Simone Martini in un linguaggio che è tutto ancora completamente gotico. È gotico il trono su cui siede la Vergine, anch’essa mostrata come una Regina francese, vestita in maniera raffinatissima; sono gotici i personaggi che circondano il trono, le cui figure esili e allungate, spesso individuate da una sigla lineare leggermente curvata verso l’alto e che indiscutibilmente rimandano alle statue dei portali delle grandi cattedrali francesi.
San Ludovico di Tolosa
L’elemento gotico così presente in Simone Martini è spiegabile con la sua vicinanza alla corte angioina, i cui esponenti furono spesso suoi committenti. Esemplare in tal senso è la preziosissima tavola raffigurante San Ludovico di Tolosa, conservata al Museo di Capodimonte a Napoli. L’opera datata al 1317 è di poco successiva alla canonizzazione di Ludovico d'Angiò, fratello di Roberto, re di Napoli, frate francescano spirituale creato vescovo di Tolosa e nei confronti del quale fu intentata una complessa causa di canonizzazione che vide una serie di problemi tra la corte di Napoli e il papa Giovanni XXII. Ludovico che per la causa “spirituale” si era lasciato morire di stenti, viene raffigurato da Simone Martini secondo un criterio che può essere, in un certo senso, collegato alle tavole agiografiche del XIII secolo, anche se interpretata secondo criteri che, anche in questo caso dipendono dall’esperienza giottesca. La rappresentazione di San Ludovico dà una serie di indicazioni “storiche” del personaggio con la sottolineatura della sua scelta francescana, sottolineata dal saio che Ludovico indossa e del suo essere Vescovo di Tolosa, come si evince da una serie di attributi iconografici come la Mitria vescovile, il mantello e il Bastone. Accanto a questi dati storici, che in realtà rappresentano l’aspetto più moderno di Simone Martini e la sua vicinanza alla lezione giottesca, si nota in quest’opera la volontà dell’artista di riprendere, laddove c’è la necessità di dare alla tavola un carattere devozionale e di evidenziare la santità di Ludovico, dei canoni iconografici decisamente bizantini. Essi si concretizzano nella posa frontale del Santo, nel fondo oro e, principalmente nella dimensione gigantesca di esso, in contrasto con Roberto re di Napoli, committente dell’opera nonché fratello del santo, evidentemente di dimensioni ridotte e inginocchiato.
Annunciazione degli Uffizi
Dopo aver concluso, nel 1318, la serie di affreschi nella cappella di San Martino nella Basilica inferiore di Assisi, dove è palese la declinazione delle forme giottesche in un linguaggio cortese, con l’allungamento delle figure e la trasformazione di ogni singolo personaggio rappresentato come un esponente di una cultura cortese e raffinata, tra il 1324 e il 1333 Simone Martini si dedica alla produzione di Polittici per le maggiori chiese di Siena.
Certamente l’opera più importante, il capolavoro degli ultimi anni dell’artista è l’Annuciazione degli Uffizi, datata al 1333. L’opera, che vede due pannelli laterali nei quali sono rappresentati Sant’Ansano e Santa Margherita e la un grande tavola centrale con la meravigliosa scena dell’Annunciazione, è la più raffinata testimonianza dell’aderenza al Gotico cortese da parte di Simone Martini e, al contempo, una delle più belle opere di tutti i tempi. Tutta l’immagine è composta da una serie di linee sinuose che individuano non solo le allungatissime figure dei due santi laterali, ma organizzano tutto il gioco di sottili corrispondenze verbali e gestuali che si creano dall’incontro dell’Angelo con la Vergine.
All’interno di una cornice polistila, dorata e cesellata si svolge una delle scene fondamentali per il mondo cristiano: l’angelo Gabriele è appena planato davanti alla Vergine Maria intenta a pregare. Che Simone Martini colga il momento del primo incontro tra l’Angelo e la Vergine è palesato dalle ali ancora aperte e dal vestito svolazzante del primo e, in maniera particolare, dall’atto di timidezza della Vergine che, all’ascolto delle parole dell’Angelo: Ave Maria Gratia Plena (che escono dalla sua bocca, quasi come un fumetto ante litteram), si ritrae chiudendosi nel mantello blu. La Vergine di Simone Martini, sintetizzata in una sigla concava, quasi come se il suo ventre fosse pronto ad accogliere il frutto delle parole pronunciate dall’Angelo, realizza in maniera sublime l’incontro tra una immagina naturale, dove alla compostezza della santità si contrappone la timidezza e lo stupore dell’umanità, e l’immagine iconica e raffinata di una mistica contemporanea.
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